lunedì 30 marzo 2015

FONETICA, Eppure (2014)


Fonetica è il nuovo progetto del chitarrista e armonicista veneziano Fabio Bello, musicista attivo dal lontano 1980 e che qui dà vita insieme a Massimiliano Cadamuro (basso, canto e flauto), Douglas D’este (batteria), Riccardo Gallucci (tastiere e canto), Claudio Martinolli (chitarra), Silvia Siega (canto) ad un lavoro tra rock, folk cantautorale e spunti prog. L’inizio affidato a Santa Pace non è dei migliori. Tecnicamente il gruppo c’è, appare anche compatto e con delle ritmiche interessanti ma la parte cantata finisce per diventare alla lunga ripetitiva e le sezioni migliori risultano essere i frangenti strumentali e la coda di quasi 2 minuti. La strada del sole ha un mood battistiano ma rivisitato con la forza del rock e non dispiace affatto, con tanto di finale nuovamente strumentale e piuttosto piacevole. La legge del branco è un brano più tirato, una soluzione che ben si aggrada al gruppo, che mi appare molto a proprio agio in questi pezzi che hanno una bella spinta (anche radiofonica per intenderci). La scuola è morta mostra invece i difetti che erano già emersi nella traccia di apertura, un folk rock di protesta che forse andava reso meno prolisso e in alcuni momenti un po’ meno scontato. Peccato perché la band è bravissima nel creare situazioni melodiche ben definite come nella successiva La nuova guerra, composizione ispirata a L’ABC della guerra di Bertolt Brecht e momento tra i più convincenti del disco, con la Siega che finalmente emerge sul serio sopra un tessuto testuale colto ma non criptico. La mano di Riccardo Scivales (tastierista dei Quanah Parker) si sente in Inno (Canzone Politica), ma il brano mi ha ricordato alcuni episodi minori dei Nomadi, non soddisfacendomi del tutto per via di una mancanza di mordente che mi sarei aspettato visto il tema raccontato. Le Parole ha l’umore del trio cantautorale Fabi-Gazzè-Silvestri e molto valido è il solo finale di David Boato alla tromba che porta tutto in territori jazz, mentre la lunga strumentale Pianeta blu è un gradevole exploit dalle tinte progressive. Aspettare è un calibrato pop rock con la Siega prima voce e l’utilizzo di un vibrafonista, il bravo Giuliano Perin, per un pezzo che forse avrebbe giovato di maggiore sintesi. Posto in affitto è una ballata crepuscolare che spezza la tensione che si era venuta a creare, prima di Pioggia Pioggia, una solare pop rock song piuttosto dinamica che nel finale si caratterizza con delle belle trovate strumentali, soprattutto dal punto di vista ritmico. Chiude la title track, con Giorgio Cordini all’affascinante bouzouki e nuovamente Scivales alle tastiere, un momento di grande emozione, per merito anche di un testo (di Luisa Moleri) che non può lasciare indifferenti. Pur avendo dei cali lungo il percorso questo esordio è assolutamente gradevole e positivo e se l’ensemble riesce a indirizzarsi con più continuità verso brani come La nuova guerra, Eppure o Le Parole credo che già il prossimo step possa manifestare risultati ancora più apprezzabili. (Luigi Cattaneo)

Promo Trailer Eppure

domenica 29 marzo 2015

AVALON LEGEND II, Un sogno per cambiare (2014)


Attivi dal lontano 1987 (allora solo Avalon) la band di Torino è tornata in pista nel 2005, mantenendo un sound piuttosto tipico del progressive rock nostrano dei ’70 (P.F.M., Le Orme) che non dimentica lezioni di sofisticato pop (Formula Tre, Pooh) e magniloquenti orchestrazioni figlie del grandeur anni ’80 (Queen, Scorpions). Un contesto che ha poche novità da proporre e che si sviluppa tramite parti ora più intricate, ora più evocative, ora più vicino alla forma canzone, aspetto che il gruppo tiene ben presente per tutto il platter. I testi si indirizzano in due tronconi: da una parte si legano alla saga di Excalibur, dall’altra sviluppano argomenti di critica nei confronti dell’uomo e della società. Dopo il debut Un mondo per sognare esce ora sotto la denominazione Avalon Legend II (Adolfo Pacchioni alla chitarra, Alessandro Crupi al basso, Lucio D’alonzo alla batteria, Mario Tornambè al piano e alle tastiere, Salvatore Fiorello alla voce), Un sogno per cambiare, disco che denota una certa maturazione compositiva a favore di brani sempre più progressivi ma comunque molto melodici e orecchiabili. L’iniziale Il Balletto di Specchi è uno dei momenti più progressivi, sette minuti piuttosto tirati che rimandano non solo ai New Trolls ma ampliano il discorso verso qualcosa di più attuale, soprattutto nei tappeti creati da Tornambè e da una sezione ritmica propulsiva e dinamica. Chi li fermerà ha un piglio epico che li pone vicino all’esordio degli Ingranaggi della Valle, con il tastierista ancora protagonista e sempre ben coadiuvato da tutta la band, mentre Oro Nero è un brillante episodio di energico rock. Molto vitale anche la carica quasi hard di Brocellandia, con un chorus solenne e una buona parte strumentale, non decolla del tutto invece La bottega dei sogni, il primo episodio che manca un po’ di coinvolgimento e feeling. Gli Avalon Legend funzionano meglio su composizioni come La maga di Eld, trascinante omaggio agli anni ’70, vicino a Delirium e Sigmund Freud e difatti la successiva Non ci sono più cavalieri sembra perdere un po’ di mordente. Spunta poi una gradevole ballata, I Fuochi di Beltane, uno degli episodi maggiormente interessanti e dalla doppia anima, con una prima parte di pop progressivo e una seconda decisamente più aggressiva ma ugualmente suadente, che mette in mostra le qualità melodiche e tecniche dell’ensemble. Il finale è segnato dall’hard prog convincente di L’ubriaco e dalla bonus track live Killer (con Piero Beltrame al basso), pezzo ispirato alla tragedia dell’11 settembre, tracce estremamente piacevoli e variegate (soprattutto la prima). Il come back degli Avalon Legend risulta quindi di buon livello e probabilmente i torinesi meriterebbero maggiore visibilità all’interno del panorama prog italiano, perché pur non inventando nulla di nuovo hanno dalla loro freschezza e verve. Date loro una chance. (Luigi Cattaneo)
Il balletto di specchi (Video)
  
  




sabato 28 marzo 2015

simakDialog, Live at Orion (2015)


Live at Orion è la settima uscita ufficiale per i simakDialog, un album dal vivo registrato all’Orion Studios di Baltimore durante il tour americano del 2013 della band indonesiana. Questo lungo doppio offre un’ampia panoramica della musica del gruppo, sempre molto spirituale all’interno di un percorso jazz per nulla convenzionale o retorico. Riza Arshad è un maestro del Fender Rhodes ma non sono da meno Tohpati alla chitarra, Rudy Zulkarnaen al basso e un trio di percussionisti che definiscono il sound verso un jazz moderno e dai contorni spesso indefiniti. Le composizioni sono tutte parecchio sofisticate e mettono in mostra doti tecniche di tutto rispetto, che si traducono in improvvisazioni che dilatano brani già ostici di loro. In effetti ci vuole un ascolto profondo per rimanere realmente affascinati da questo sestetto, che può risultare indigesto e poco appetibile ai primi ascolti. Il lavoro di Tohpati si integra con quello di Arshad, riuscendo a ritagliarsi interessanti spazi solistici praticamente in ogni traccia, dirigendo con sapienza il suo operato sia nei momenti più sperimentali che richiamano lo stile di Terje Rypdal (chitarrista che ha suonato per anni con Jan Garbarek), sia in quelli dove mostra di possedere una certa fluidità di fraseggio vicino ad Allan Holdsworth, sia in quelli maggiormente rock che ci proiettano nell’universo del grande Jeff Beck. Tante idee si susseguono nei meandri di un ethno jazz in cui il Fender detta le coordinate, inseguito proprio da Tohpati e da Zulkarnaen (in bilico tra Dave Holland e Harvey Brooks) e ben assistito dalle ritmiche del trio percussivo, incessante e stimolante ponte tra le parti e aiuto costante nella creazione di un groove potente in cui l’interplay sinergico tra i sei trova sfogo in un live complesso e ricco di spunti. Live at Orion rappresenta per i simakDialog l’incontro tra il jazz elettrico di davisiana memoria e il progressive rock avanguardistico e ricercato. Disco per palati forti. (Luigi Cattaneo)

Stepping Out (Live)

giovedì 26 marzo 2015

QUANAH PARKER, Suite degli Animali Fantastici (2015)

























È un piacere ritrovare i Quanah Parker dopo il brillante debut del 2012, un esordio che aveva riportato a galla uno dei tanti nomi che non erano riusciti ad emergere ad inizio ottanta, quando sentir parlare di progressive era più complicato rispetto a qualche anno prima. I veneti hanno accumulato esperienza in sede live e affinato ancor di più amalgama e feeling, aspetti che innalzano probabilmente la qualità di un percorso che già aveva colpito con Quanah!. Oltre al mastermind Riccardo Scivales alle tastiere, troviamo in questo Suite degli Animali Fantastici Elisabetta Montino al canto, Giovanni Pirrotta alla chitarra e al basso (in tre tracce), Paolo Ongaro alla batteria e Alessandro Monti al basso e al flauto dolce Moeck (più una serie di strumenti come campanelli, Tabla, Claves e Triangolo). La band mantiene intatte le linee guida del progetto, tutto incentrato su un rock progressivo sinfonico ispirato ai grandi maestri Yes, Genesis, Banco del Mutuo Soccorso e P.F.M., senza però risultare tediosi, stantii o scontati. L’intro di From Distant Lands mette subito in risalto la voce della Montino, preludio a quello che è l’episodio che meglio sintetizza la musica del gruppo, la lunga title track di quasi 30 minuti suddivisa in 8 sezioni che ha al suo interno tutti gli ingredienti principali che caratterizzano il sound dei Quanah Parker. Ritroviamo quindi Le Orme, arrangiamenti maestosi in odore di Banco, sprazzi strumentali fluidi e personali in cui si nota un certo interplay tra le parti, anche se ovviamente Scivales è quello che emerge di più, e una cura per il particolare che solo i grandi musicisti riescono ad avere. Bellissimo l’omaggio strumentale A Big Francesco, composto di getto dal tastierista dopo la morte prematura di Francesco Di Giacomo e traccia particolarmente sentita, con Scivales grande protagonista e una sezione ritmica notevole nel ricamare i vari passaggi, anche i più complessi e tipicamente prog. Molto interessante anche Death of a Deer, un brano del 1981 ripreso e attualizzato ma comunque permeato da un’affascinante aurea new prog. Di ottimo livello gli intarsi strumentali, in cui si distinguono oltre al solito Scivales anche Pirrotta e Ongaro, a dire il vero davvero bravi nel supportare la verve del leader, così come sempre in primo piano appare la potente e precisa Montino. Il finale di Make me smile (pezzo del 1985) è incentrato su un pop rock venato di soul che non dispiace e dona ulteriore raffinatezza a questo nuovo lavoro dei Quanah. Suite degli animali fantastici è davvero un bel ritorno, che segna un ulteriore passo in avanti nella crescita dei veneti, sempre più brillanti e compatti nel portare avanti da più di trent’anni il credo del rock progressivo. Per ulteriori informazioni visitate il sito www.quanakparker.it (Luigi Cattaneo)